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I muretti a secco delle Langhe
UN PATRIMONIO DA DIFENDERE
Sulle Colline del Moscato – in particolare lungo la Valle Belbo, che conduce in Alta Langa – esiste un’opera umana umile e dimessa, quasi invisibile, i cui sforzi costruttivi e la cui grandiosità totale è però paragonabile ai più celebri monumenti della storia.
Stiamo parlando dei muretti a secco, immenso sforzo della gente di Langa di rendere coltivabili – e dunque abitabili – i pendii delle loro colline. Quasi assenti nella Langa Albese e nel Monferrato, i cui colli sono meno impervi e sicuramente più dolci, i muretti a secco iniziano a comparire spostandosi verso le alte colline dove scorrono i fiumi Belbo e Bormida, le cui sorgenti raggiungono le Langhe al confine con l’Appennino Ligure.
In queste zone selvagge e meno antropizzate, ricchissime di boschi e di ripide valli (chiamate «rittani») è possibile trovare piccoli o grandi nuclei abitati abbarbicati a mezza costa, lungo i potenti fianchi delle colline o sulla cima dei bricchi (come vengono qui chiamati i crinali più elevati). Attorno a questi nuclei di case, o piccoli villaggi, si distende un fitto dedalo di strade campestri, campi coltivati, cascinali e ciabot («rimesse per gli attrezzi»): segno evidente che l’economia dominante della zona fossero l’agricoltura e la pastorizia. Ma le strutture più imponenti non si trovano sopra il suolo, bensì a contatto con esso. Sono le centinaia e centinaia di chilometri di muretti a secco che solo la pazienza della povertà e la forza dell’indigenza hanno contribuito a creare.
I contadini dell’Alta Langa (e con loro tutta l’umanità che ha abitato le zone più ripide del Pianeta) svilupparono il sistema dei muretti a secco (detto anche dry stone walling) per l’edificazione di terrazzamenti. L’obiettivo era quello di rendere coltivabili, con meno sforzo, le dorsali più ripide dei colli, quelle meglio soleggiate. Grazie ai muretti a secco, i terrazzamenti dell’Alta Langa potevano ospitare noccioleti, orti, frutteti e, soprattutto, i vigneti, che rappresentavano una delle attività più redditizie, almeno fino all’avvento della fillossera, agli inizi del ‘900, che fece quasi del tutto scomparire le viti da queste aree.
L’ immenso e faticosissimo lavoro di terrazzamento (esistono intere colline rese “pianeggianti” con questo sistema, migliaia di chilometri quadrati) veniva eseguito “a secco”, cioè senza l’utilizzo di calce o cemento. Componente fondamentale dei muretti era la Pietra di Langa, che tuttora si trova in abbondanza nel sottosuolo. Questa pietra è presente in grandi quantità in tutta quell’area collinare che dall’Appennino giunge a Santo Stefano Belbo e che, al di là del fiume Tanaro, nel Roero, scompare quasi del tutto. L’Alta Langa ebbe infatti origine dal sollevamento di antichi fondali marini, dove la pressione era così elevata da compattarne i finissimi granelli di sabbia, fino a trasformarli in roccia. Il Roero, al contrario, fu anticamente una zona costiera, lambita da un mare ancestrale dove si scaricavano le acque dei fiumi delle Langhe: qui i suoli sono sciolti, leggeri e sabbiosi e le arenarie sono rarissime, spesso in forma di massi erratici sotterranei.
Muretti a secco e terrazzamenti per la coltivazione delle viti
UNA TECNICA PERFETTA
La tecnica del muretto a secco era perfetta. La Pietra di Langa veniva “tagliata” in lunghe strisce sovrapposte il cui peso totale riusciva a contenere la terra usata per il terrazzamento. I muri a secco formavano anche il contrafforte necessario alla costruzione delle vie di comunicazione e spesso venivano impegnati per le fondamenta delle case. Il maggior numero di pietre, dette lòse, lo si otteneva durante lo scasso eseguito per impiantare nuovi vigneti: quando una vena di arenaria veniva scovata si andava di piccone e mazza, per affettare le lòse e creare, al bordo del campo quella che veniva chiamata quera, ovvero una catasta di pietre. Si scavava poi un fosso dove ubicare il muro, fino a raggiungere il tufo marnoso, molto compatto. Su di questo si adagiavano le pietre in fila, privilegiando quelle “quadre”, le più preziose perché si incastravano meglio. Niente malta o cemento, solo terra: era l’arte dell’incastro e il peso del muro a sostenere la costruzione.
La particolarità del muretto a secco è la sua capacità di far “respirare” la terra. Non utilizzando cemento come sigillante, le intercapedini fra le pietre sono ricche di vita, una vera culla di biodiversità. Tra le pietre vivono colonie di insetti, erbe, licheni e piccoli animali preziosissimi per l’equilibrio dell’ecosistema.
IL MURETTO A SECCO, PATRIMONIO DELL’INGEGNO UMANO
Dopo quasi un secolo di abbandono, oggi la tecnica dei muretti a secco viene lentamente riscoperta. Il dry stone walling è un metodo di costruzione totalmente sostenibile: utilizza materiali locali, non impatta sul paesaggio e unisce la perfetta efficienza idrogeologica alla bellezza estetica. Non è facile trovare carpentieri ancora capaci di costruire muretti a secco, ma in Langa stanno nascendo scuole e iniziative per non dimenticare questa tradizione. Tra queste, la recente fondazione della Scuola Alta Langa della Pietra a Secco, voluta dall’Unione Montana e presentata, nel 2019, a Cortemilia.
Anche l’Unesco sta attivamente contribuendo alla salvaguardia del dry stone walling. Nel 2018, tutti i muri a secco del mondo sono stati sono stati riconosciuti Patrimonio Immateriale dell’Umanità, ovvero inseriti in una speciale lista di tecniche e pratiche umane che l’Unesco difende perché parte integrante di un bagaglio culturale di tutti noi, frutto dell’ingegno umano che ha sfidato i secoli.
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